Non si può non amare Waclaw, il protagonista di DOVE ARRIVANO LE ACQUE, il romanzo di Anja Kampmann, pubblicato da Keller nella traduzione di Franco Filice, che ci porta in giro in mezzo mondo prima sulle piattaforme petrolifere e poi con un vecchissimo fiorino in un viaggio a ritroso nelle sue origini. L’evento scatenante della storia è la morte di Matyas, l’amico con cui divideva la cabina ma anche le speranze per il futuro, che segna un punto di non ritorno, o meglio che costringe il giovane uomo a fermarsi e tornare indietro: “Waclaw se ne stava lì, disteso, e nel silenzio della cabina cominciò a raccontarlo a Milena, come se tutto ciò che diceva confluisse in una stoffa finemente intessuta e la paura fosse solo un filo sottile in quella trama, un solo filo, e non una paura che da quel momento in poi lo avrebbe sempre accompagnato, a ogni maledetto allarme”. Così dopo essersi fatto cucire un completo (“come se i vestiti fossero qualcosa di interiore… Pensò alla tosse del sarto, alla luce della lampada da tavolo. A come si cuce un tessuto, con una delicatezza che non usiamo con noi stessi”), Waclaw lascia Il Cairo per tornare in Europa: prima il paese natale di Matyas, l’Ungheria, poi Malta, l’Italia, la Svizzera e il paese minerario in Germania in cui è nato. Dal carbone al petrolio e in mezzo il sogno di paternità con Milena, gli incontri con uomini di ogni dove illusi e poi delusi da un lavoro estenuante e pericoloso (“non sai mai in anticipo qual è il prezzo da pagare. E soprattutto non sai quanto sei disposto a pagare. Non possiamo più recuperare le cose perdute”) per un romanzo che non ti lascia scampo e ti si insinua dentro in un’alternanza continua di disperazione e esaltazione. Si sente che la scrittrice tedesca è anche una poetessa perché riesce a restituire la poesia delle esistenze più sofferte senza tradirle ma anzi donando loro dignità letteraria, come la colomba che accompagna Waclaw nel suo viaggio: “A volte aveva la sensazione che quegli anni gli fossero stati strappati via come pezzi di argilla dal tornio di un vasaio toccato solo per un attimo mentre il centro rimaneva vuoto”.
Simonetta Bitasi