“MALE A EST rivela una nuova e interessante voce letteraria, che si distingue per il grande talento narrativo e la capacità di unire ritmo, efficacia e una lingua raffinata, raccontando una storia necessaria. Ci sono due paesi geograficamente vicini come l’Italia e la Romania ma in realtà molto diversi nel bene e nel male, secondo i parametri e gli occhi di chi guarda: “Mi fa schifo questo paese. Sembra un film in bianco e nero. Il resto del mondo è a colori. Il peggio è che nessuno lo sa. Nessuno sa di essere dentro un film in bianco e nero”. Così c’è chi emigra e nutre illusioni verso il cosiddetto Bel Paese, visto in televisione, che spesso vengono smentite. C’è una bambina che si sente straniera e per questo nega le sue origini (“Noi ci dobbiamo amalgamare, come le strisce di colore sulla carta. Noi dobbiamo stare nei contorni. Noi dobbiamo avere pronunce impeccabili. Noi dobbiamo smettere di esistere in una lingua, rinascere nell’altra. Noi ci dobbiamo integrare, diventare irriconoscibili”). Ci sono due mondi legati dai pacchi spediti e ricevuti, strategie di adattamento, sentimenti che vanno dalla rabbia alla nostalgia, dal rimpianto alla voglia di riscatto. E tutto passa attraverso le parole, quelle precise e ricche di significato del romanzo, ma soprattutto quelle che ci vogliono incasellare, limitare, omologare, sfidare, emarginare. Le parole degli oggetti e dei marchi, di quello che possediamo e che quindi pretende di definire chi siamo, ma anche quelle non dette, soprattutto all’interno della famiglia. Le parole sputate senza pensare, che ci vogliono definire e però non dicono le dolorose conseguenze di un nome storpiato o di un nominare banale e frutto di pregiudizi: “Qui, i malati terminali non sono quelli che muoiono, ma quelli che vanno via. Noi siamo malati di estero. Noi siamo malati di Italia, Spagna, Grecia, Inghilterra. Siamo malati di Europa. Non abbiamo più niente da dirci, niente da dire alle persone intorno. Non abbiamo più una lingua in cui dire, non abbiamo più intorno. Noi stiamo bene, non abbastanza bene. Noi abbiamo la data di scadenza”.

Simonetta Bitasi