Il bel titolo del romanzo di Gudrún Eva Mínervudóttir è una precisa dichiarazione d’intenti. Non possiamo sopravvivere da soli e la rete sociale è essenziale per cercare un qualsiasi senso nella nostra vita. La scrittrice islandese conferma così il suo talento per l’introspezione psicologica dei personaggi e insieme la capacità di raccontare con lucida spietatezza la società in cui viviamo, in una storia circolare dove ascoltiamo alternate le voci dei quattro protagonisti. Siamo in un sobborgo di Reykjavík, immerso nella natura, con le case equamente divise tra i residenti e quelle usare solo per le vacanze. Il primo personaggio che entra in scena è l’adolescente Hanna che in realtà una casa non ce l’ha ma è provvisoriamente ospitata da amici insieme alla mamma che si sta separando dal compagno. Poi conosciamo Arni e soprattutto il suo vivacissimo labrador Alfons, e Aron che è il perno della storia, nove anni e una brutta situazione familiare e infine Borghildur, dal passato lungo come Arni. Le loro esistenze si incrociamo in modo inaspettato, per merito e per colpa di una bicicletta, per un tentativo di mettere in relazione spiriti affini, per una delusione d’amore e per un lutto senza fine, per il caso che spesso governa le nostre vite: “Quando morì eravamo stati insieme sette anni. Nemmeno un decimo di un’esistenza umana. E comunque non mi è toccato un destino peggiore di altri. La vita ti sbrana, e intanto ti guarda negli occhi con compassione. È così e basta”. Il romanzo ci avvolge e non possiamo non affezionarci ai personaggi, da quelli più giovani e apparentemente più indifesi a Arni e Borghildur che hanno già percorso un bel pezzo di vita. I più grandi si alleano per salvare Arno, ma in realtà creano legami essenziali per sopravvivere. La traduzione di Silvia Cosimini restituisce la scrittura precisa, poetica e ammaliante della scrittrice islandese e insieme la pietas di virgiliana memoria con cui racconta i suoi personaggi e insieme tutti noi.

Simonetta Bitasi